Roma, lunedì 24 dicembre 1945 Luigi Mari lanciò la sacca per le esercitazioni da campo nel pianale sul retro della camionetta e sedette accanto al guidatore. «Ma che diavoleria vi è saltata in mente?» strillò coprendo il borbottio del motore. Il capitano Renato Villoresi rise e ingranò la marcia dando tutto gas. Mari sobbalzò all’indietro giusto in tempo per cogliere l’ammiccamento del maggiore Antonio Ayroldi, appollaiato a cavalcioni tra i due sedili posteriori. «E tu cosa mi dovresti dire?» borbottò ancora, ravviando i capelli scompigliati dalle folate di aria liberate dal parabrezza abbassato sul cofano motore. «Dunque?» insisté resistendo alla tentazione di un’imprecazione. Renato e Antonio scambiarono un’occhiata complice. «Abbiamo pensato di alleviarti la tensione di quest’ultimo periodo...» bisbigliò quest’ultimo. «Davvero! Devi crederci, Luigi» aggiunse Renato alzando la mano destra dal volante «noi abbiamo un’idea precisa della sofferenza che provi, con tutto quel che abbiamo passato...» Mari chiuse gli occhi e batté il palmo della mano sulla bassa fiancata della camionetta. Come dare torto ai suoi amici e commilitoni, come non passare in rassegna le tragedie durante i mesi dell’occupazione nazista, le atrocità commesse dai repubblicani fascisti, le angosce della clandestinità sul filo del rasoio della delazione o del tradimento. Il buio di quel periodo stagnava incancellabile nella mente. Quando Mari si riscosse dal profondo di quei turbamenti realizzò che avevano imboccato la via Ostiense: intravide tra i fronduti filari alberati la mole della piramide di Caio Cestio e le mura turrite, ovvero quel che gli sembrò ne rimanesse: Porta San Paolo era stato il luogo della battaglia più impegnativa e coraggiosa della resistenza romana. Forse, pensò, in quel giorno si era manifestata spontaneamente la migliore sinergia di sempre tra quanti appartenevano a corpi del Regio Esercito e i primi nuclei di resistenti politici e intellettuali liberi. Purtroppo, la collaborazione mai più si era ripetuta, al contrario: acerrimi contrasti avevano pregiudicato iniziative, azioni, battaglie e soprattutto la salvezza di molti innocenti. «Non c’è anima viva in giro, come un giorno di festa» gridò Renato accelerando al massimo sul rettilineo dinanzi ai cancelli sbarrati dei Mercati Generali «meglio così, arriveremo prima.» «Ancora non mi avete detto dove stiamo andando» obiettò Mari impaziente «oppure preferite vagare senza meta, senza direzione...» «Come vedi non ci rechiamo a sentire sermoni» sghignazzò Antonio puntando il dito alla Basilica di San Paolo, subito sfilata via alla loro destra. «Comandante, non diamo retta a questo irriverente levantino» Renato marcò il proprio accento partenopeo e continuò la spericolatezza della guida: scalò doppiamente la marcia per infilare lo stretto fornice sotto la ferrovia, sterzò a sinistra per un’erta salita e proseguì tra uno sparuto gruppo di case misere e malandate. «Se non erro siamo in direzione dell’Abbazia delle Tre Fontane» esclamò Mari con l’eccitazione di chi suppone di avere risolto un dilemma. «No, nient’affatto Luigi» lo rintuzzò Antonio «ti ho già detto che per oggi staremo lontani da preti, frati e monache...» Mari si voltò, accigliato, pronto a dare sfogo a un’irritazione ormai giustificata, a suo parere. La camionetta superò un dosso e si diresse verso occidente. «Andiamo nella zona della E42» ammise Renato «un sopralluogo per verificare cosa è stato lasciato incompiuto e cosa ne rimane dopo tutto quello che è accaduto...» «Quanto resta dellʼEsposizione Universale» soggiunse Antonio «delle megalomanie del regime, dei progetti faraonici, delle ladronerie amministrate da gerarchi e consorterie d’affari.» «Dopo l’acquartieramento delle truppe tedesche sarà rimasto soltanto sfacelo» aggiunse Mari con una nota di amarezza. «Ma ora è necessario considerare il domani, occorre pensare al futuro, Luigi. Almeno voi che ancora potete...» Renato rise e batté la mano sul cruscotto. Mari pensò che durante l’occupazione nazista, nonostante fosse comandante del Fronte Militare Clandestino anche per il territorio a sud di Roma e per i Castelli Romani, mai aveva visitato quella zona che ora gli appariva come una landa desolata: la morbida giacitura della campagna tra poggi naturali e rilevati, creati per le costruzioni progettate e non realizzate, era punteggiata da boscaglie sparse di pini ed eucalitti, macchie di allori e ginepri, tutte inframezzate da tratturi e carraie sinuose. Era impressionante la quantità di ruderi, impalcature e impianti che qua e là incidevano il territorio come tracce evidenti della caducità degli interventi umani. La guerra aveva sospeso il corso di questi, progettati per rendere gloria all’orgoglio nazionalista aggravato dalle vertigini imperiali, al fascismo all’acme della rivendicata superbia ariana. Ora tutto era abbandono, perfino la luce fredda del mattino lo esaltava e lo complicava con irreali riflessi.


«Guardate laggiù in fondo» Antonio si alzò in piedi appigliandosi agli schienali dei sedili «quella torre sarà alta più di sessanta metri...» «Quello è il Palazzo della Civiltà Italiana» Renato arrestò la camionetta, poggiò il mento sul volante e fissò la costruzione squadrata, tutta coperta da imponenti archi «anche là abbiamo combattuto per fermare l’invasione tedesca subito dopo l’armistizio.» «Andiamo là, metti in moto» Mari continuò a fissare l’obiettivo, le parole secche come un ordine. Scesero e risalirono per una sconnessa carraia fino a fiancheggiare una monumentale costruzione razionalista con un’azzardata copertura a crociera, poi attraversarono uno stradone fiancheggiato per intero da palazzi squadrati. Alcune scritte indicavano anche lì la destinazione dei vari alloggiamenti delle truppe germaniche. Da qui i tre commilitoni giunsero a una distesa aperta dove a sinistra si stagliavano alte quinte di strutture abbandonate con porticati e colonnati, a breve distanza svettava un obelisco piramidale e davanti a loro un largo viale alberato di lecci terminava ai piedi di un mastodontico basamento: qui dominava l’alto palazzo quadrato, bianco di travertino e marmo con le grandi arcate sulle facciate di ogni lato. Mari fu il primo a scendere dalla camionetta. Era dominato dalla curiosità, stupito dall’imponenza della struttura, rapito dal nitore dei rivestimenti lapidei. Salì correndo lo scosceso basamento, prese fiato e alzò gli occhi alla sommità del palazzo. «Un popolo di poeti di artisti di eroi» gridò leggendo l’iscrizione sulla testata e sillabandola «di santi di pensatori di scienziati, di navigatori di trasmigratori.» Si accovacciò e cedette alla commozione. Erano le stesse parole che ritrovò immediatamente nella memoria, le stesse parole che aveva ascoltato dall’oratoria di Mussolini nel discorso forsennato del due ottobre del ʼ35: la voce gracchiante dall’altoparlante collegato alla radio nel piazzale della caserma, i ripetuti ululati delle folle in delirio, la retorica irriverente dell’ignoranza propagandata. Come allora, ancora per l’ennesima volta il sentimento di disapprovazione tracimò a repulsione fino a esplodere in collera irrefrenabile. Rabbioso si sollevò e scalciò un sasso, poi un altro e ancora. «Calmati, Luigi» affannato Antonio lo tirò a sé per un braccio «sappiamo cosa provi, ne abbiamo ragionato mille volte e sai che abbiamo le tue stesse convinzioni. Quello fu l’inizio della fine del regime, ma anche la fine delle nostre speranze.» «E jamm bell ja» sopraggiunse Renato e di slancio li abbracciò, con tanta energia da farli quasi cadere «Luigi, ora tu devi rivolgere ogni attenzione in avanti, a quel futuro che il popolo e la patria aspettano.» «Certo non è la pretesa di nazione che quegli sciagurati in camicia nera esaltavano» aggiunse Antonio picchiettando le dita sulle spalle degli amici «quelli non torneranno più!»


Mari li fissò negli occhi, lo sguardo dominato da tristezza. «Non ne sono per nulla sicuro, per nulla» si voltò e s’avviò alla camionetta. «Bevi un goccio di grappa, ti farà bene» Antonio gli porse la fiaschetta «ma non scolartela tutta, ė tutto quello che abbiamo trovato.» Mari apprezzò il calore della sorsata di distillato, sebbene fosse di qualità ordinaria, tipica delle razioni militari. Renato rimise in moto e si diresse verso la linea della ferrovia che aveva intravisto dall’alto del palazzo. Dopo qualche centinaio di metri la carrabile li condusse dinanzi a quella che nei progetti era stata una stazione della nuova ferrovia metropolitana, ora appariva soltanto una infilata di pilastri a sorreggere un infinito solaio di cemento. Parcheggiarono la camionetta e si soffermarono a contemplare davanti a loro una vasta depressione del terreno e alti declivi ricoperti da intenso verde erbaceo, tutto rivelava l’escavazione profonda destinata a divenire un lago artificiale secondo le tracce di un visibile disegno ellittico. Uno scampanellio in lontananza li sorprese, poi si fece più dappresso, si avvicinava a loro. Un folto gregge di pecore e capre iniziò a discendere la china di quel cratere artificiale: tutte brucavano ghiotte pressandosi lʼuna contro l’altra, mescolandosi tra belati e lamenti di agnelli e capretti, alzando e abbassando le teste con un movimento ritmato tanto naturale, quanto meccanico. «Non sono abbandonate, neppure incustodite, osservate lassù» avvertì Antonio puntando l’indice al crinale alla loro destra «qualcuno se ne occupa, le segue, da lassù...» Mari distolse l’attenzione dal gregge, la rivolse nella direzione indicata e controsole scorse una sagoma, come un’ombra ferma. Vide che aveva un cappello nero e largo, calcato fino a nascondere il volto, un mantello lo avvolgeva fino sotto le ginocchia, si appoggiava a un lungo bastone. Avvertì una sensazione di sollievo, ma allo stesso tempo di curiosità: quella presenza era l’unica incontrata tutt’intorno nel deserto di rovine, nella serie di luoghi devastati dagli artifici perpetrati da demagogiche velleità. Fissò la sagoma in attesa di scoprirne l’aspetto, sentire la voce, cogliere un gesto. «Ehi lassù...» gridò Antonio, e suscitò un’eco tremolante. L’individuo non rispose, non reagì. Fermo. Soltanto nel gregge vi fu una reazione: per alcuni istanti smise di ondeggiare, le teste si sollevarono per individuare un possibile pericolo, interruppero il ruminare meccanico. Mari rimase in attesa, l’inquietudine incipiente per una reazione. Renato prese il binocolo dalla camionetta e lo puntò allo sconosciuto. «Dannazione!» gridò ancora Antonio «che intende fare?» Ora l’individuo si scapicollava per il pendio ripido, barcollava, spingeva puntando il bastone a terra in qua e in là. Correva, scendeva veloce verso il gregge. Inciampò, cadde e il terreno franò sotto il suo peso. Ruzzolò per diversi metri, perse il bastone, precipitò senza freno, come un grosso sacco. Il gregge si aprì e lo raccolse in sé, ondeggiò più volte, si spostò ancora più in basso, poi rallentò l’oscillazione, ripresero i belati e il brucare. Nessuno riuscì a intravedere lo sventurato. «Ma che fine ha fatto?» Renato con il binocolo scosse il capo «si sarà fatto male... avrà perso i sensi.» Mari si precipitò verso il punto dove riteneva si fosse fermata la caduta dell’individuo. Si voltò verso i suoi commilitoni e li vide immobili accanto alla camionetta. Il gregge si sparpagliò a raggera al suo passaggio, corse via spaurito, caracollando. «Eccolo! Ma non si muove!» Mari gridò disperato scorgendo la sagoma riversa a poche decine di metri da lui. Avvertì la palpitazione aumentare, le gote infiammarsi, il respiro farsi più affannoso. Fu allora che si avvide per la prima volta del cane: un grosso cane da pastore, dal manto candido e le orecchie aguzze, con il muso soffiava potente addosso e attorno all’individuo esanime. Mari si arrestò. Il cane avvertì all’istante la nuova presenza, scodinzolò due volte appuntando gli occhi fiammeggianti di tensione, un latrato aggressivo e un improvviso scatto di tutto il corpo precedettero il ringhio profondo e minaccioso, e la corsa all’attacco. Mari arretrò veloce, si girò per accelerare la fuga, perdeva terreno rispetto all’animale. Si voltò ancora e vide la fiera spalancare le fauci, la lingua insanguinata, i canini enormi e scuri. Cadde bocconi, tutto fu buio, la fitta di dolore lo tramortì. Il soprassalto del risveglio si abbatté su Mari come una folgore, catapultandolo al centro del grande letto. I cuscini e le coperte erano esplosi per ogni dove. L’inconscio si dissolse in un gorgo di frammenti e la cognizione del reale si riaggregò. Era seduto, affannato, sudato. Era solo nella sua stanza, a casa. Il chiaror dei fasci di luce filtrati dalle persiane e dalle tende bianche lo riportò a realizzare l’avanzata del giorno. Si toccò la gamba ancora coperta dal lenzuolo dove il dolore era lancinante, trovò la fasciatura, la palpò e avvertì sotto le dita il cerato, untuoso umore dato da una perdita di sangue. Lentamente, attento a non fare movimenti bruschi con la gamba dolente, rimise in ordine per quanto poteva il letto, riassestando cuscini e coperte, lisciando le lenzuola secondo le pratiche solite, le stesse apprese in accademia militare Sul comodino trovò al loro posto la caraffa d’acqua e il bicchiere non utilizzato, la lettura della sera precedente – un saggio di Oswald Spengler Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, non ancora pubblicato in italiano e che avrebbe tradotto come Il declino dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale –, l’astuccio d’argento che utilizzava come portapillole, aperto con le compresse per la notte e il primo mattino. Guardò l’orologio da tasca aperto che segnava precisamente le nove. Si stupì per le tre ore di ritardo rispetto alla sua consuetudine di risveglio. Era stata la prima notte dacché era ritornato a casa dalla Clinica Salus Infirmorum, dimesso alcuni giorni dopo il quarto intervento chirurgico alla gamba destra: lunghe ed estenuanti cure causate dai proiettili dei soldati della Schutzstaffel, che lo avevano trafitto due volte. Era stato intercettato a Porta Pinciana, inseguito tra gli spari fino a via Lombardia, fino al palazzo dove abitava sotto falso nome. Non era mai arrivato al nascondiglio. Le forze gli erano mancate e aveva fatto appena in tempo a scaraventarsi nell’atelier sul cortile. Da allora, dal marzo del ʼ44 era iniziato il suo calvario. Dopo il fortunoso salvataggio di Iolanda, la titolare di quell’atelier, e delle sue lavoranti erano seguiti mesi di apprensione per la salvezza della sua vita e, comunque, dell’arto. Aveva resistito, come era solito con risolutezza e volontà ferrea. Iolanda gli aveva donato la salvezza, poi l’amore e la dedizione della moglie migliore che potesse immaginare. Ora avrebbe desiderato narrarle l’incubo della notte e la corrispondenza tra la sofferenza sognata e il dolore fisico, le avrebbe raccontato tutto. Non gli succedeva spesso di mantenere nitidezza nella memoria dei suoi sogni, neppure aveva mai praticato i metodi suggeriti in proposito dal neurologo viennese. Era sempre stato scettico sulle interpretazioni dei sogni, per non dire del buonumore che provava ogniqualvolta riceveva notizie riguardo la creduloneria di tentare la fortuna al gioco puntando su numeri sognati, sovente soltanto supposti tali. Il dramma onirico di quella notte era sconvolgente anche nel ricordo che nutriva. Aveva rivisto e si era abbracciato con Antonio e Renato, gli ufficiali più vicini a lui durante i mesi dell’occupazione tedesca. Erano i più attivi insieme a lui nel raggruppamento Roma Sud e Castelli Romani del Fronte Militare Clandestino, la formazione di resistenti più odiata e perseguitata dai collaborazionisti e dalle squadracce di fascisti repubblichini assieme ai questurini in camicia nera. Assieme avevano combattuto e congegnato le azioni contro il nemico e le attività di sostegno ai tanti cittadini bisognosi di aiuto, asilo, salvacondotto, via di fuga. Entrambi erano stati arrestati durante riunioni ristrette e segrete con altri partigiani e resistenti, incarcerati e torturati nella macelleria nazista di via Tasso, fucilati e tumulati con tutti gli altri martiri nelle caverne delle Fosse Ardeatine. Mari aveva pianto per loro, aveva pianto per la rabbia: era convinto del duplice tradimento patito, di quelle infami delazioni offerte da chi nell’ombra aveva colpito come Giuda. Anche nel sogno appariva una simile belva, nascosta nel gregge e assetata di sangue, le fauci insaziabili, le zanne assassine nerastre. Contro di lui inganni, perfidie e fellonie avevano fallito: lui si era salvato, miracolosamente salvato, fortuitamente salvato. Un minuto più tardi e senza il coraggioso aiuto di chi lo aveva soccorso lui sarebbe morto come tanti, troppi commilitoni, come Antonio e Renato. Ma un assillante quesito lo imprigionava in dubbi atroci: chi poteva averlo spiato o persino giocato doppio con lui e contro di lui? Chi aveva rivelato lʼultimo rifugio, gli ultimi propositi, gli ultimi piani? Chi era stato il motore di tanta viltà, di tanto sangue, di tanto dolore, di infinito tormento. «La guerra non ė finita» esclamò ad alta voce come volesse dare corpo e forza al convincimento che lo tormentava «ancora non ė finita...» Una doppia bussata leggera alla porta lo interruppe. «Buongiorno, Luigi» Iolanda avanzò sorridente, lui la contraccambiò. Dietro di lei Annina, la governante che da sola si occupava dell’andamento della casa, avanzava con il vassoio della colazione, spandendo aroma di caffè e fragranza di biscotti fatti in casa. «Buongiorno, Colonnello» bisbigliò veloce «poso il vassoio, apro le imposte e vi lascio, con tutto il daffare che ho in cucina...» «Grazie, Annina. Vengo fra poco ad aiutare in cucina, più tardi dovrò scendere in atelier.» Mari la ringraziò con un cenno. Iolanda sistemò il vassoio sul letto, versò il caffè nelle tazzine e sedette accanto al marito. «Hai avuto una notte turbolenta, mio caro» la voce flautata nascose la sua preoccupazione «ti sei agitato senza requie, hai anche parlato nel sonno, ma non ho capito una sola parola.» «Mi spiace, Iolanda, ma potevi svegliarmi...» Mari sorbì il primo caffè, per lui al solito il migliore della giornata. «Ho pensato fosse preferibile che riposassi» lei socchiuse gli occhi, con un sospiro «ho pensato che subissi l’effetto dei nuovi medicamenti oppure una qualche dolenzia, un postumo dell’operazione. Io mi dovevo alzare prima del solito e sicuramente troppo presto per starti vicino.» «Sei sempre premurosa verso il tuo povero reduce...» Mari sorrise, strinse le labbra in una smorfia di burla «hai fatto bene. E poi oggi per te è una giornata campale. Mi agitavo perché sognavo, un sogno assurdo, ma talmente verosimile.» «Su racconta, mi fai incuriosire...» Iolanda ravviò i lunghi capelli neri dietro l’orecchio «fallo ora a mente fresca, ti prego.» Mari iniziò a raccontare il sogno, si concentrò per ritrovare i frammenti delle immagini che lo avevano impressionato, fece attenzione a non contaminare la narrazione con impressioni o aggiunte elaborate dallo stato di coscienza. «Adesso comprendi le cause dell’agitazione, del mio orrendo risveglio» toccò di nuovo la fasciatura della gamba, al tatto la secrezione gli sembrò meno umida «e non penso che tutto questo sia stato causato dai farmaci o che sia conseguenza dell’ultima operazione.» Iolanda lo aveva ascoltato attenta a ogni dettaglio, gli occhi chiusi, le mani a carezzare quella del marito. «Hai avuto una notte incredibile, Luigi» gli strinse le mani «eri già turbato ieri. Ho pensato che fosse a causa dell’annuncio della morte di Patton...» «Non direi. Certamente la notizia mi ha impressionato» replicò Mari «che sia morto così per un banale incidente stradale, per giunta in Germania, dopo cento battaglie.» «E allora? Forse ti impressioni per quanto sta accadendo al processo di Norimberga?» il tono di Iolanda rivelò l’apprensione montante «oppure c’è qualcosa che non ho notato o che non mi hai detto?» Mari si riassestò sui cuscini e la scrutò, silente: percepì un nascente imbarazzo seppure per un improbabile equivoco con Iolanda, ma questo lo aiutò a riconoscere il proprio cruccio, anzi l’assillo, quasi l’ossessione degli ultimi giorni. «Domani sarà Natale e sono giorni ormai che alla radio, nei giornali, nelle conversazioni quotidiane apprendi quanto sia invalso un sentimento collettivo, una comune considerazione di ritorno alla normalità quotidiana dopo la fine della guerra, la volontà di valutare necessaria ogni attenzione alla celebrazione di feste e riti, religiosi o laici che siano, tutto come prima.» «E tu non pensi sia realmente così, pensi che sia errato, perfino ingiusto» commentò Iolanda. «Ho riflettuto, ho iniziato a riflettere soprattutto nei giorni in ospedale» Mari si schiarì la voce rotta dall’emotività «hai constatato tu stessa quanta sofferenza ancora sia presente: feriti e mutilati, reduci dai campi di prigionia, uomini irriconoscibili ai loro familiari, per tacere di quelli che hanno ricevuto le ferite che non si rimarginano, quelle alla mente, all’anima. E tutto ciò ė visibile, verificabile ed evidente. Sarebbe più rispettoso che l’opinione comune si preoccupasse più di loro e dei nostri caduti che non di come accogliere il Natale nel focolare domestico. Lo stesso papa dovrebbe preoccuparsene ben più di quanto faccia...» «Questa ė una tua lamentela ricorrente, Luigi, non ė una novità. Quindi...» chiosò Iolanda. «Hai ragione, evito le divagazioni e rimango in argomento. Il tuo tempo ė prezioso, e oggi ancora di più» riprese lui «ė assodato che la guerra ė finita soltanto politicamente o se preferisci diplomaticamente, ma non sostanzialmente. Oltre alle sofferenze, che permangono incancellabili, ogni giorno i quotidiani riportano notizie di nuovi focolai di conflittualità, guarda nei Balcani ad esempio. I nostri alleati americani e inglesi si fronteggiano con i sovietici e le occasioni di un nuovo scontro bellico potrebbero non mancare. Ma ė qui da noi, qui in Italia che la guerra continua e in modo subdolo e aspro. E non perché sopportiamo ancora razionamenti, tessere annonarie, borsa nera e tutto ciò al quale ci siamo abituati per sopravvivere nel migliore dei casi...» «Lo so bene, diamine» si sfogò Iolanda «se non avessimo le giuste conoscenze avremmo una magra tavola a Natale. E invece, grazie al cielo, lʼAnnina non ė costretta a fare miracoli!» «Voglio dire che ancora siamo in guerra, combattiamo con quel che ė rimasto del passato!» Mari corrugò la fronte «e non mi riferisco soltanto alle bande armate che ancora scorrazzano, sparano e uccidono, estorcono e rapiscono, si scontrano con vendette e odio contro altro odio e altre vendette. C’è di peggio, mia cara.» Iolanda lo accarezzò sulla guancia, sul viso un profondo velo di tristezza. «Quanti di coloro che furono responsabili del fascismo, capi e capetti, conniventi e complici, oppure semplici codardi per convenienza oggi sono ai loro posti, nei loro uffici, nei loro tribunali, nei loro comandi, nelle loro banche, ovunque. Imperterriti e sfrontati proseguono le loro vite, nessun impedimento ė posto alle loro carriere, nessuno li persegue per le loro responsabilità pregresse. Addirittura, alcuni di loro sono designati giudici dei loro stessi complici o accoliti. Epurazioni, defascistizzazione, sanzioni contro il fascismo sono simulacri di una reale assenza della volontà di giustizia.» Mari bevve d’un fiato il bicchiere d’acqua che Iolanda gli porse. Era arrossito, parola dopo parola più indignato, perfino furioso. «Capisco quanto ti sconvolgano queste tue considerazioni» disse Iolanda in un sussurro consolatorio. «Spiegami, dunque, come potrei essere d’accordo sulla celebrazione del primo Natale del dopoguerra» la voce di Mari si infiammò «questo ė semplicemente il primo Natale dopo la disfatta tedesca e la sconfitta del nazismo. E tu hai ragione notando che io sono impressionato dalla vicenda del processo di Norimberga: vae victis e si condannino i capi in testa del regime hitleriano, in modo esemplare e di fronte al mondo intero. Soltanto dalla giustizia può riprendere vita la libertà e la democrazia, un nuovo patto costituzionale alla luce del sole, la prospettiva di irrevocabile messa al bando delle dittature e dei loro principi. In proposito c’è un patrimonio filosofico e giuridico da secoli! Considera solo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Millesettecento ottantanove, perbacco!» Iolanda annuì, desiderosa di evitare qualsiasi contraddizione alla foga del marito. «In Italia non abbiamo queste prospettive. Le fucilazioni di Dongo, l’uccisione di Mussolini, le esecuzioni sommarie non sono stati atti di giustizia, ma barbare vendette con lo scopo bieco di soddisfare la sete di sangue del popolo e imporre d’autorità nuovi dogmi, esattamente come ai tempi del Terrore, di Robespierre, delle ghigliottine. Non lo credi?» «Conosci bene la mia opinione» lo rassicurò Iolanda, la voce calda e calma «abbiamo combattuto entrambi fascisti e nazisti. Sai bene che io avevo aiutato i partigiani già prima d’incontrarti per quanto potevo. Abbiamo discusso molte volte di tutto questo e in piena concordia. Non ho dubbi, mio caro. Ora il mio unico desiderio ė che tu plachi questa inquietudine...» «Ma come posso? Come?» lui sbraitò con maggiore impeto «come si può assistere a queste insopportabili messinscene di finta giustizia, quando coloro con i quali abbiamo combattuto fianco a fianco sono i primi a graziare e proteggere le compagini sodali del fascismo, dappertutto: nella magistratura, nella polizia, nelle forze armate, nell’alta burocrazia, nelle province e nei comuni, o-vun-que» Mari batté il pugno sul letto, esausto si appoggiò ai cuscini. «Calmati, amore mio. Sai bene che i medici ti hanno prescritto riposo e tranquillità assoluta» Iolanda riprese ad accarezzargli la mano «eppure io sono persuasa che ci sia dell’altro che ancora non mi hai detto.» Lui la osservò perplesso, poi abbassò lo sguardo cercando la concentrazione che l’irruenza dei pensieri poteva avere compromesso. «Penso a qualcosa che forse potrebbe riguardare il tuo sogno» proseguì lei con tono sicuro «qualche notizia recente potrebbe avere scatenato il tuo incubo, queste tue visioni inconsce. Ora ascoltandoti me ne sono convinta.» «Può darsi» rispose Mari dubbioso sebbene incuriosito, ancora distratto dall’impegno delle ipotesi che gli affollavano la mente. «Abbiamo conosciuto insieme quel direttore della Banca Nazionale del Lavoro a via Barberini» Iolanda sospirò profondamente «il ragionier Domenico De Ritis.» Mari trasalì, sollevò il capo, negli occhi lo stupore di una intuizione tanto imprevista, quanto giusta. «Ho letto ieri l’altro del mandato di cattura spiccato contro di lui» proseguì lei spronata dalla reazione del marito «un compagno socialista, una persona di cui avrei potuto fidarmi, come se ne ė fidato addirittura il compagno Nenni. Era stato pure eletto presidente del Comitato di azione Antifascista della banca. E invece era una spia della polizia segreta fascista...» «Dell’OVRA!» sbottò Mari «una spia prezzolata dellʼOVRA che ottiene di essere nominata dal Comitato di Liberazione Nazionale nientemeno che commissario straordinario della banca con pieni poteri. Uno sgherro assoldato dai fascisti che era stato da anni tutore infido e infedele della famiglia Matteotti, della vedova, dei suoi figli, di Matteo. Diamine, dimmi se non ė folle tutto ciò!» Iolanda si rese conto di avere colto nel segno: era stata quella vicenda ad innescare il turbamento grave di suo marito. «Aveva spiato anche Bruno Buozzi» aggiunse lei «lo aveva nascosto a casa sua durante l’occupazione. Ho letto che De Ritis riceveva un assegno mensile dai fascisti, aveva anche un nome in codice, Tisde. Però ė inconcepibile che Nenni continui a difenderlo.» Iolanda si interruppe, esaminò il volto del marito: i muscoli contratti., l’espressione ancor più corrucciata, lo sguardo confuso da un altalenante turbamento. «Per come ti conosco» seguitò dopo qualche attimo «la vicenda De Ritis ha rinvigorito quel demone che ti tormenta da sempre, sin da quando ti nascondevo qui da me, mentre le SS ti braccavano dopo il ferimento. Ti ho sentito prima di entrare dire “la guerra non ė finita”, e so cosa significa per te.» Mari scosse il capo, rinserrò le braccia al petto e sorrise. «Mi conosci meglio di quanto io faccia con me stesso» borbottò ironico e continuò «De Ritis ė il perfetto esempio di delatore, di spia, di infiltrato. Insomma, ė lo sgherro prezzolato dai fascisti che non si crea scrupoli di tradire e mandare a morte chiunque: l’amico come il fratello, l’amante come il padre, la madre come il prete. Non lo riconosci se non quando ė troppo tardi e non puoi aiutare nessun altro: ė troppo tardi, il sangue ė versato.» «Ti tormenti ancora a ricercare chi ha tradito» disse Iolanda «ti affanni a trovare un sospetto, un indizio, una traccia, una coincidenza: nulla ti soccorre, nulla ti dà certezza, nulla ti dipana dubbi che si susseguono. Così al tormento aggiungi l’angoscia, la diffidenza, il timore ad ogni passo di compromettere altri, le loro vite, quelle dei loro cari.» Mari rimase in silenzio. Gli occhi si inumidirono. Tentò di frenare la commozione che lo stava assalendo, mentre considerava evidente il collegamento tra le riflessioni degli ultimi giorni e il sogno di quella notte. Iolanda si raggomitolò accanto al marito, intenerita dalle emozioni che lui provava. «Non mi do per vinto, non avrò pace senza che giustizia sia fatta» Mari strinse a sé la moglie, la baciò sulla nuca «stanerò chi ha tradito i miei uomini e poi anche me. Dovessi impiegare il resto della mia vita ci riuscirò a denunciarli. A qualunque costo, secondo il mio giuramento d’onore.» Lei prese la mano del marito e la baciò. «Sarò sempre con te, amore mio. Sempre a qualunque costo» mormorò lentamente. «Ne sono più che mai consapevole, mia cara. Anche oggi il tuo conforto mi ė essenziale» Mari pose un’attenzione maggiore del solito nella scelta delle parole «mi hai aiutato a comprendere quanto il mio animo ha riversato nel sogno. Quei sentimenti per i miei fraterni commilitoni saranno eterni e intendo non soltanto quelli per Renato e Antonio. A proposito penso che nel sogno loro due non siano venuti in soccorso all’individuo o pastore che fosse, né in mio aiuto alla vista della belva per mandarmi un messaggio chiaro: perché spetta a me solo ora agire, spetta a me solo combattere il nemico. Loro hanno compiuto già il massimo sacrificio per la libertà, per la nostra libertà: possono soltanto vegliare su di noi, semmai apparirci in sogno, semmai...» Iolanda si arrampicò sul fianco del marito e lo baciò sulle labbra, poi si alzò con un guizzo. «Dio mio, ė tardissimo e avevo fatto una promessa ad Annina» disse mentre si allisciava l’abito dalle sgualciture «torno prima di pranzo e non dimenticare di prendere le medicine. In mattinata verrà Peppino a raderti: so che ha fretta e quindi non trattenerlo a dilungarvi nelle vostre solite chiacchiere. Voglio che le lavoranti ti trovino in buon aspetto quando nel pomeriggio verranno a porgerti gli auguri.» Mari assentì, rassegnato a quel genere di istruzioni. «Quasi mi dimenticavo» aggiunse Iolanda sulla soglia della porta «Annina a pranzo ti porterà soltanto un brodo sgrassato con i passatelli. Stasera lei andrà in chiesa e noi avremo la nostra cena della vigilia, finalmente in santa pace. Un bacio.» Iolanda strinse le labbra a cuore e richiuse la porta, ridendo. Lui guardò il vassoio, si consolò alla vista della preparazione di Annina ancora intoccata. «Pane, burro e marmellata di arance» mugugnò fra sé «che binomio ideale con la lettura di Oswald Spengler per festeggiare la Vigilia di Natale!»

